Il labirinto nella tradizione orale
– la memoria –

Maria Rebecca Ballestra
The itinerary of the wandering soul / L’itinerario dell’anima vagante, 2015
spilli di metallo su carta, polvere di titanio su specchio, inchiostro su carta
trittico, 50 x 50 cm ciascun elemento

opere di Maria Rebecca Ballestra realizzate durante la residenza per artisti Signal Fire in Arizona (USA): www.signalfirearts.org

Il tema del labirinto è spesso associato al mito del viaggio dei defunti, anche detto itinerario “dell’anima vagante” (da cui il titolo dell’opera). Per gli indiani O’Odham il labirinto era simbolo di nascita e di morte; come accadeva praticamente sempre, nell’antichità, nell’immaginario di questo gruppo di nativi americani il labirinto era concepito come unicursale: di forma rotonda e con 7 cerchi concentrici, il labirinto era caratterizzato da una sola entrata e un unico vicolo cieco in fondo al percorso. Le uniche due possibilità erano dunque quelle di giungere alla meta o di ritrovarsi al punto di partenza. Per gli O’Odham il labirinto si arricchisce della stilizzazione della figura umana all’ingresso del labirinto stesso: “The man in the Maze” (l’Uomo nel labirinto). Questo simbolo assume diversi significati: i Tohono O’Odham, infatti, si riferiscono all’”uomo nel labirinto” come a I’Itoi e ricollegandosi, in tal modo, al mito della creazione, ma anche al viaggio simbolico dell’umanità e di ogni singolo individuo verso il punto nero centrale del labirinto – la morte – per tornare ad essere Uno con I’Itoi, il dio che vive in un labirinto sotterraneo sotto la montagna Baboquivari.

LABIRINTICA

Belo 189, via Carducci 41, Gorizia

22 dicembre 2017 – 28 gennaio 2018
giovedì, venerdì, sabato 16.00-19.00

Mostra collettiva con opere di Rachela Abbate, Maria Rebecca Ballestra, Julien Friedler, Mauro Panichella, Berty Skuber, Robert Smithson, Aldo Spinelli

22 dicembre 2017 ore 18.00, Belo 189: Inaugurazione Labirintica (a seguire visita allo spazio espositivo del Kinemax)

Frammento n. 2 di “The Truth of Labyrinth”

On songera ensuite à cette question: se pourrait-il que l’art devienne un jour un refuge contre le bruit et la fureur qui nous habite? On connaît notre réponse: un «mythe» fondateur, assorti d’une pratique assidue de l’humain. Une esthétique minimale et sans préjugé. Un point de vue contemplatif, à rebours de tout militantisme. Car, finalement, qu’est-ce qui nous fonde comme sujet? Qui suis-je? S’inquiétera-t-on.

Une interrogation lancinante. Elle s’entend au cœur de Spirit of Boz et rayonne dans toutes ses occurrences (tableaux, performances, écrits, etc.). En bout de course, elle en impliquera une autre, de loin plus étrange. Cette question, il faudra s’y arrêter. Nous l’aurons placée à l’entrée de la Forêt des âmes. Cette question la voici dans toute sa crudité: car, finalement, que sait-on de l’existence (ou non existence) de dieu?

Dieu: mystère des mystères, un scandale pour la raison, une pure folie, sinon le nerf de la guerre: une force insondable, chevillée à l’artiste depuis l’orée.